dim. 50×60 cm.l. – A.D. 2015.
La cultura viene sempre dal mare. Su di esso s’incrociano e s’intrecciano linguaggi e popoli che nel fondersi, in determinati momenti e luoghi, danno atto a nuovi climi intellettuali; a nuove civiltà nelle quali, se si vuole, si possono individuare ed estrapolare le componenti arcaiche di cui sono costituite. “Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare” scriveva Borges.
La mitologia greca ci riporta molte versioni sul mito della Taranta, anzi – per essere onesti, più che precisi – di Arakne che potrebbero rappresentare l’antefatto delle narrazioni tradizionali salentine e non solo. Infatti, i racconti popolari dell’antica Grecia sembrano precorrere quelli delle nostre nonne che ci narravano solo delle gesta della Taranta compresi i dannosi effetti del suo morso che si riverberavano sulla psiche umana, in genere femminile. Ma questa, seppur vecchia di qualche secolo, è storia di oggi, della quale ne siamo, in qualche misura, a conoscenza. Quindi la domanda è: chi è la Taranta e da dove viene?
Una leggenda di Ovidio narra di una giovane ragazza, Arakne, la quale fu sedotta da un marinaio che, dopo la prima notte d’amore, partì e da allora ella visse in attesa del ritorno del suo amore.
Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata da Zeus, il quale voleva la fanciulla per se, così coloro che erano a bordo perirono affogati.
Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa e si uccise. Così, alla morte della giovane, Zeus s’infuriò e la rimandò in terra per restituirle il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola.
A questo punto – ma ciò che segue centra solo in parte con Ovidio e la mitologia greca, poiché è un collegamento che rimane solo plausibile, perché del tutto personale, frutto di quanto ho potuto discernere dalle nostre leggende locali, peraltro, molte delle quali, non ancora scritte – mi piace pensare che, Arakne, venne condannata dal capo degli dei, a vagare per le terre del mediterraneo veicolata dalle imbarcazioni di esploratori e avventurieri. Prigioniera, dunque, delle sue nuove sembianze ed anche della sua tela che periodicamente doveva tessere servendosi di un filo che ella stessa produceva secernendolo attraverso la bocca. Approdata in puglia, trovò nel salento il luogo ideale dove agire nel tentativo di liberarsi dalla maledizione a cui era stata sottoposta. Allora pensò che mordendo le belle fanciulle e, trasferendo loro il suo male, esse avrebbero potuto trovare un giorno il giusto rimedio per guarire. Un rimedio al quale, una volta individuato, ella stessa sarebbe ricorsa. Allora, fu così che la ormai salentinizzata Arakne, cioè a dire, questa volta, la Taranta, pensò bene di nascondersi tra le pietre, le piantagioni di grano, di tabacco ecc., in modo che, le contadinelle nei periodi di raccolta potessero divenire sue facili prede. Per farla breve, già che si può ben intuire come è andata, il rimedio venne individuato attraverso l’atto del saltare al ritmo di percussioni d’incerta natura che, col tempo, si perfezionarono definendosi nell’uso del tamburrello. Di conseguenza il salto divenne danza: la Pizzica.
Ma, a prescindere da ciò, il mio pensiero si ostina a ritornare alla ragazza di Ovidio per dire che ad Arakne, come anche a tutte le ragazze di ogni tempo e luogo, se mai avessero subito o subiscano torti d’amore, da chiunque ad esse fatti pervenire – uomini o dei -, è dedicato il presente dipinto.